Amazoniade
Un anno nel magazzino di Passo Corese
Abbiamo deciso di pubblicare questa cronaca di una (metaforica s'intende) discesa agli inferi e ritorno utilizzando parola scritta, illustrazioni e immagini in movimento (con voce narrante), perché ci sembrava il modo più efficace per permettervi di osservare i fatti da più angoli visuali. Per questo "Amazoniade" è concepito come un long form in 20 capitoli, ciascuno introdotto (e in alcuni casi anche inframmezzato) dalle illustrazioni di Emanuele Giacopetti, seguito dal testo e completato dai video di Massimiliano Cacciotti. Ma se volete, andando direttamente in fondo alla pagina, è possibile leggere "Amazoniade" come un libro, scaricando il PDF, o guardarla come un film, scorrendo i video uno di seguito all'altro.
“È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose”. (F. Colombo, “Siamo tutti in pericolo”, intervista a Pier Paolo Pasolini, 1975)
01. L'antefatto
Ti dici, va beh: ma che c’entro io con Amazon? Io che non hai mai fatto l’operaio. Io che non ho mai avuto, in vita mia, un lavoro dipendente. Ma proprio mai! Io che ho già mezzo secolo e figli grandicelli e ho scavallato il millennio che ero già un ometto. Anzi un omone. Io che, finora, ho solo scritto, ho solo creato, ho solo organizzato. E adesso invece… anno nuovo, vita nuova!
Ti dici tutto questo, ma dentro di te lo sai che gli anni venti hanno rivoluzionato il mondo. Quello che conoscevi prima pare che non ci sia più. O quasi. Hanno chiuso tutto. O quasi. E non c’è più il lavoro. O quasi. E forse non c’è proprio più l’economia. O quasi. O almeno quella che eri abituato a chiamare economia: l’economia reale.
Però che linguaggio e che pensieri antichi! Sono proprio un boomer, mi sa. Come dicono adesso. Insomma: uno coi capelli bianchi! Economia reale? Ma sì. Certo che c’è ancora quell’economia lì. Solo che adesso di reale c’è Amazon. È lì che c’è il lavoro. È lì che c’è opportunità. E lì che c’è futuro. Un po’ diverso da come lo avevo immaginato, il futuro, ma comunque futuro. Perché Amazon è proprio il futuro. È il futuro anche per me. Per me che sono un boomer coi capelli bianchi. Lo dice pure la pubblicità: quegli spot Amazon che vanno anche su Mediaset. Che lì c’è gente della mia età. Dicono che adesso ci lavorano tutti, lì da Amazon. E sono contenti. Un sacco contenti. E allora, dai, mi sa che faccio domanda anch’io. Hai visto mai che mi prendono?
E magari comincio pure io a lavorarci lì. Nel futuro. Così, poi, avrò di nuovo i soldi per fare la spesa, anche se c’è stato il ventiventi. E che c’è stato il lockdown. E che ho perso il lavoro. Quello vecchio. Quello da boomer coi capelli bianchi.
Tanto, poi, Passo Corese non è nemmeno così distante da casa. Lì cercano personale. Sta scritto sul sito. Che non è proprio il sito di Amazon. È di una società interinale. Che no, lo so che non esistono più le società interinali. Ma, insomma, dai, era per capirsi. Chi è è, come si chiama si chiama, quella società, basta che lavoro. Che poi fa lo stesso.
E, male che vada, alla fine ci scrivo su un libro. Su Amazon. O ci faccio un reportage. O uno spettacolo carino. Che è quello che facevo prima. Dai, poi lo chiamo tipo: “La mia vita dentro Amazon”, il libro. O lo spettacolo. Un titolo così. O quasi. Se esisteranno ancora i libri. E gli spettacoli. E i reportage.
Ma sì che esisteranno, dai… O quasi.
AMAZONIADE - 01 - L'antefatto
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Abbiamo fatto amicizia e creato una chat su Whatsapp. Che se poi ci prendono tutti ci vediamo lì, a mensa, a Passo Corese e festeggiamo insieme. Perché dicono che c’è una mensa grande lì. E ci sono pure le macchinette del caffè gratis. Beh fico, dai. E l’ultimo giorno di lezione si chiama DAY ZERO, che è quando ti spiegano le regole del magazzino. Poi se passi l’esame finale ci sono le visite mediche. E poi c’è il DAY ONE. Che il day one è come il primo giorno di scuola. E si fa proprio lì da Amazon. E, dai, pare che pure io ho risposto sempre giusto. Proprio come Luminita. E, insomma, adesso che dite, mi chiameranno a lavorare? Mi sa proprio di sì.
AMAZONIADE - 02 - Il corso
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AMAZONIADE - 03- L'hub
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ATTENZIONE: per eliminare il VRRVRRVRRVRRVRR indossare le cuffie e spostare la tendina qui sopra sull'immagine verso destra!
04. Il day one
Nel piazzale, prima di arrivare al magazzino, ho visto le postazioni esterne, quelle per i fumatori, o per chi vuole stare un po’ all’aria aperta quando c’è la pausa. Sono dei bei loculi in plexiglas da un metro per un metro, alti poco più di due. Ce ne sono una cinquantina, che pare una specie di alveare trasparente. A vederlo così mi fa proprio strano, ma va beh, magari sono io. Mi pare un cimitero per vivi.
Salgo qualche scalino. Seguo la segnaletica ed entro in una saletta esterna, dove devono darmi il mio BADGE. Mi servirà per entrare nell’HUB. E per fare tutto il resto. Il mio sarà un GREEN BADGE, che poi è quello che danno agli sfigati, quelli col contratto a scadenza. Perché quelli fichi, quelli col contratto a tempo indeterminato, il badge ce l’hanno blu.
Mi hanno dato pure uno zainetto trasparente, che solo con quello lì si può entrare, perché devono vedere sempre cosa ci metti dentro. E mi hanno dato pure la mascherina chirurgica, messa in una bustina di cartone, da portare sul viso per via del covid.
Sul badge, di un verde chiaro, ci hanno stampato la mia foto e ci hanno scritto sopra CACCIMAS, che sarebbe il mio LOGIN. Non lo so se da adesso mi chiameranno così e se Massimiliano, là dentro, praticamente sparirà. Speriamo di no.
Comunque ora posso entrare. E passo sotto al metal detector, poi davanti al termoscanner. C’è altra gente che fa il day one come me. Ci dividono in gruppi da dieci. Di quelli del mio corso non vedo nessuno qui. Tutte facce nuove.
Ci danno anche delle cuffiette, perché il rumore dentro è terribile. C’è un vruuuuuuuuuu interminabile, fatto dai nastri trasportatori. Sentire cosa ti dice l’istruttrice è impossibile senza le cuffie. L’istruttrice ha un microfono e ci parla così: attraverso quel microfono e quelle cuffiette, anche se è solo a un metro da noi. Poi ci porta a vedere come si fanno i pacchi. Seguendo rigorosamente le frecce, perché ci sono i sensi unici anche per camminare a piedi.
E poi ci tiene a dirci che il nastro adesivo usato per i pacchi è ecologico, che la colla è rigorosamente ad acqua e che il cartone delle scatole è riciclato. Insomma, che qui è tutto molto green. Proprio come il nostro badge. E ci spiega i movimenti da ripetere per impacchettare bene e rapidamente. E ci mette a fare le prove. E a stare lì, otto ore a fare pacchi, che quasi non passano mai. Ed è solo il primo giorno. Ma alla fine pure le otto ore passano. Perché alla fine passa tutto nella vita.
Ed è ormai l’alba, fuori, anche se da dentro non si vede. E allora ribedgiamo il badge, prima di ritornare a casa.
ATTENZIONE Spostare la tendina verso destra e restituire le cuffie...
AMAZONIADE - 04 - Il day one
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05. La neolingua
Qui all’hub ef-si-o-uan, fin dal secondo giorno pare che ti trattano già da esperto. Oggi sono arrivato e non mi ha filato praticamente nessuno. Non c’è più l’istruttrice. Non c’è più la cuffietta per sentire. C’è solo quel vruuuuuuuuuu fastidioso, che quello non finisce mai. Non è che mi ci raccapezzi poi tanto. Qui tutti usano una specie di gergo iniziatico, uno strano linguaggio simil english, che pare fatto apposta per aiutarti a non capirci un cacchio.
Intanto devo smetterla di dire che il vruuuuuuuuuu lo fanno i nastri trasportatori. Perché qui i nastri trasportatori si chiamano CONVEYOR e se non li chiami conveyor pure tu, ti guardano tutti storto. Poi c’è l’INBOUND, che sarebbe dove arrivano le merci. E c’è l’OUTBOUND, che è dove si preparano i pacchi.
Ed è all’outbound che mi hanno sbattuto, perché è il posto più adatto per me, in base alle mie caratteristiche mentali e psicofisiche. O, perlomeno, così mi hanno detto. Come fanno a conoscere la mie caratteristiche, visto che è solo un giorno che sto qui, non lo so. Ma le conoscono. E guai a obiettare!
Mi hanno detto pure che io sono un PACKER. E fin qui ci arrivo facile a capirlo, perché pack è quasi come pacco, suona simile. Quindi il packer è quello che fa i pacchi. Però già il REBINISTA e l’INDUCTISTA, con cui mi devo coordinare nel lavoro, mica l’ho capito subito che cacchio sono.
Meno male che io ho fatto il linguistico e mi ci sono messo di buzzo buono e ho scoperto che induct è un termine che in inglese sta per “installare formalmente gli oggetti in una posizione ufficiale” e che reb-in è un altro verbo inglese, che vuol dire “smistare in contenitori”.
Insomma, più o meno, quando arrivano le merci, gli inductisti gli danno una posizione ufficiale e i rebinisti poi li smistano spedizione per spedizione. E così gli oggetti te li ficcano nei uol - che si scrive WALL - che sta per muro, ma che in realtà è una specie di grande armadio a scomparti. E ogni scomparto equivale a un pacco da spedire, che tu packer devi imballare.
O almeno credo. Perché non lo so bene che cavolo devo fare e come. Anche perché i LEAD e i manager col piffero che mi danno indicazioni. Qui, dopo il primo giorno, non ti si fila più nessuno e devi cavartela da solo. Hai solamente un computer con cui dialogare, che poi è più le volte che ti si impalla di quelle che funziona.
Un computer dove, appena arrivi in postazione, ti ci devi BEDGIARE e ti dice tutto lui. Perché poi tu sei grande grosso e smaliziato e te la devi cavare, da solo, solo come sei nella tua postazione – che non è nemmeno tua, perché te la cambiano di continuo, anche più volte al giorno - diviso dagli altri da pannelli di plexiglas. Da solo con il vruuuuuuuuuu dei conveyor, che a volte provano a coprire con della musica di sottofondo, che vorrebbe fare atmosfera, ma poi, alla fine, aggiunge solo altro casino.
Stai solo col tuo grin bedg, da bedgiare ogni cosa che fai. Stai solo il tuo reit da perseguire, che si scrive RATE e che sta per punteggio. Stai solo con questa strana lingua che usano qui, fatta di parole che vogliono dire e non dire, che ottiene un effetto velatamente straniante, sommessamente alienante, buona solo per farti perdere i tuoi punti di riferimento.
E ti ritrovi a navigare a vista, in una sorta di universo linguisticamente parallelo, misterioso e, in fondo in fondo, molto ma molto ostile.
AMAZONIADE - 05 - La neolingua
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06. Day two three four
Se c’è una cosa che mi fa incazzare è che, ogni giorno, ogni ora, ogni momento, qui c’è da cambiare postazione. Intanto, dieci minuti prima dell’inizio turno, ti arriva la mail che ti dice dove devi andare: CACCIMAS wall 1 station 3. O magari CACCIMAS wall 22 station 5. Che pare niente la differenza, ma fra il wall 1 e il 22 fa quasi un chilometro di distanza.
A volte, però, non ti arriva quella mail e allora devi guardare sullo schermo che sta all’ingresso. Che è tipo quelli delle stazioni ferroviarie. Li dovresti trovare il tuo login e il numero della postazione assegnata. Se non c’è scritto niente, allora bisogna dirigersi verso l’area d’attesa. E ogni giorno ne trovi altri cento come te, che non hanno ricevuto messaggi e stanno fermi lì come tanti salami. Ci resti pure tu, dritto in piedi come un salame, nell’area d’attesa, ad attendere solo un minuto, oppure un’oretta buona, chissà, prima che ti dica qualcosa qualcuno dei lead: “Tu lo sai fare single?” ti chiede, all’improvviso, un ragazzino con la pettorina fosforescente – che è il segno distintivo di chi qui conta qualcosa - “Eh? Che vuol dire fare single?” rispondi. Però lui nemmeno ti sente, perché il vruuuuuuuuuu c’è ovunque e tu non ti puoi avvicinare, perché c’è il distanziamento e se ti avvicini becchi l’ammonizione.
Se ne va, un po’ spazientito, senza proferire verbo. Dopo poco arriva un altro, stessa età, stesso tablet o computerino d’ordinanza, stessa aria da nerd spaesato: “Wall 15”. E allora via, verso il Wall 15, dove oggi ci sarà la mia postazione. O almeno così credo. Perché poi non faccio in tempo a rassettare il casino lasciato da quello che c’era prima a lavorare qui, non faccio in tempo a sistemare gli attrezzi – che io sono pure mancino e messi a destra mi fanno di uno scomodo – a mettere in ordine le scatole, a imballare il primo pacco, che mi piomba alle spalle un altro nerd ventenne, in pettorina flu e sguardo fisso sul tablet: “Caro, devi spostarti al Wall 2”.
Qui siamo tutti “caro” o “cara”. Che è pure normale, perché valli a sapere i nomi di cinquemila persone che cambiano di continuo turno e postazione, senza poter parlare mai, divisi uno ad uno dalle pareti in plexiglas e da quel vruuuuuuuuuu eterno e onnipresente.
Però, perché devo andare subito al Wall 2, che dieci minuti fa mi avete detto di venire qui al 15? Vallo a sapere. Che poi non lo sa bene neanche lui il perché, non lo sa nemmeno il nerd ventenne in pettorina flu. Glielo ha semplicemente segnalato il tablet. Lo ha deciso l’algoritmo.
E allora capisci perché i capi qui sono tutti giovanissimi: perché in realtà non sono per niente capi, ma semplici servi alla mercé del loro tablet di ordinanza, da cui non alzano mai lo sguardo.
Un ventenne a questo non ci fa quasi caso. Un trentenne già di più. Un quarantenne molto di più. Un cinquantenne, prima o poi, prenderebbe decisioni di testa sua, guardando di persona le postazioni, osservando quello che succede davvero, nel concreto, sul luogo di lavoro, scegliendo lui se mandarti al Wall 2 o lasciarti al 15, basandosi sulle proprie capacità e la propria esperienza, senza fidarsi solo di quanto sta scritto tra i numeri del suo computer.
E allora no. E allora qui i cinquantenni restano soldati semplici, mentre i ventenni prendono le mostrine da generali. È la prassi.
AMAZONIADE - 06 - Day two three four
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07. Nel regno dell'algoritmo
Finalmente oggi sono rimasto a casa, che ho il giorno di riposo. Il lavoro è pesante e mi ci voleva proprio un giorno senza fare niente. Che poi lì in magazzino c’è quel vruuuuuuuuuu incessante, che mi entra proprio nel cervello. Per non parlare dei tipi della sicurezza, che sono insopportabili e che ti fanno stare sempre sul chi va là. Girano di continuo a fare le ronde, per beccarti in flagrante se fai qualunque cappellata, o anche solo se parli col vicino, così ti possono fare la nota scritta.
Che poi, di fatto, ha poco valore quella nota, o almeno così mi hanno detto, ma intanto crea un bel clima di tensione. E, quando te la fanno, lo fanno sapere subito in giro, così gli altri stanno al loro posto: beccarne uno per educarne cento. Come insegnava Mao Tse Tung.
Non va molto meglio durante la pausa, quando puoi andare a mensa. Lì a mensa ci sono solo tavoli singoli, con una sedia, divisi l’uno dall’altro da pareti di plastica, che alla fine non riesci a scambiare una parola con nessuno. Dice che è per via del Covid, ma così non puoi fare amicizia, né puoi chiedere consigli a quelli un po’ più esperti, per raccapezzarti un po’ di più sulle cose che non sai o che non capisci. E poi pure a mensa girano le ronde, che ti guardano come se tu fossi sempre in difetto, anche se non sai bene il perché.
La vigilanza più occhiuta, però, non è quella del personale. La vera spia che tutto vede e tutto sa è quella invisibile, asettica, automatica dell’ALGORITMO. Lui è il vero re di Amazon, quello che tutto analizza e tutto decide: ritmi di lavoro, ruoli, compiti, spostamenti.
L’algoritmo, dicono, secondo per secondo, calcola il carico di lavoro previsto e i ritmi di ciascuno, e poi sceglie chi deve fare cosa e andare dove. Tutto va in automatico, senza che lead e manager possano capirci qualcosa e metterci bocca. Loro, semplicemente, eseguono, verificano che le indicazioni date dal software vengano rispettate.
Però l’algoritmo non è mica perfetto. Anzi, spesso fa le scelte sbagliate, decide cose senza senso. Lui è basato su ipotesi accademiche, ideate sulla base di una situazione ideale. Insomma, una roba che non assomiglia per niente alla realtà. Perché la realtà è piena d’imprevisti e d’imperfezioni.
L’algoritmo non prevede l’usura dei materiali, non considera che i macchinari possono incepparsi, o i computer impallarsi, non sa che il rotolo di nastro adesivo per sigillare i pacchi può finire, né che una scatola può rompersi, o che un oggetto può scivolare per terra. Non è neanche previsto che un lavoratore si possa stancare, o che debba andare in bagno. Sono cose inconcepibili per chi lo ha programmato.
Tutto è basato pensando a un mondo inesistente, in cui ogni cosa è perfetta, ciascuno è sempre al massimo delle forze e nel cielo risplende sempre il sole. Eppure lì nel magazzino di Passo Corese il sole non risplende mai, neanche in pieno giorno, che lì dentro c’è solo la luce dei neon.
Però oggi sono a casa, finalmente. Un po’ di sole lo posso vedere dalla finestra. Almeno per qualche ora.
AMAZONIADE - 07 - Nel regno dell'algoritmo
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08. L'ossessione del rate
Ogni giorno, appena arrivo in postazione, per un po’ mi sembra proprio di essere tranquillo. Mi organizzo, tolgo il giaccone, sistemo le cose. Poi, sereno sereno, incomincio a PACCARE. Paccare, da me a Roma, era come quando i milanesi ti dicono “limonare”: vuol dire sbaciucchiarti e avvinghiarti con qualcuno. Però qui no. Qui da Amazon è diverso. Qui dicono proprio così: paccare. Ma intendono: “impacchettare i pacchi”. Che impacchettare è un verbo troppo lungo. Sono sei lettere in più e, al ritmo di due pacchi al minuto, per otto ore filate, per mille persone a turno, fa un enorme spreco di tempo: inaccettabile! Quindi, è andata per paccare e amen. Qui va ottimizzato tutto: anche il numero di lettere da usare quando si parla. Se si parla.
E comunque, mentre inizio a paccare, mi sembra di stare tranquillo, dicevo, almeno per un po’. Poi, però, subito mi viene un dubbio: ma lo starò seguendo nel modo giusto il rate? O sto andando troppo lento? Oppure troppo veloce? Non lo so. Non lo so mai.
Il rate sarebbe il punteggio. Cioè, per chi fa il packer, è il numero di pacchi da paccare quando sei al lavoro, secondo gli standard decisi dai lead. O forse non proprio dai lead. Insomma, secondo gli standard. C’è chi dice che siano cento pacchi all’ora. Chi dice centocinquanta. Chi addirittura duecento. Ma tanto non lo sa nessuno il numero, quello vero. Sempre che quel numero esista. Non lo sanno nemmeno i lead. Nemmeno i manager.
Come per gli alligatori nelle fogne di New York, l’esistenza di questo inafferrabile rate, è una voce che si diffonde di continuo, girando di bocca in bocca. Non si sa come sia nata. Si sa solo il perché si diffonda: perché serve – meravigliosamente bene – a farti sentire perennemente in difetto. Vado troppo lento? Troppo veloce? Serve anche a scatenare una gara fra packer, a chi impacchetta – anzi, sorry, a chi “pacca” – più velocemente. Perché, poi, se non fai il rate giusto, ti mandano via, così, su due piedi: tanti saluti e grazie. Invece, se sei una scheggia, se fai mille pacchi al secondo, poi ti danno il blue badge, cioè il contratto a tempo indeterminato.
Ovviamente, anche questa teoria – anzi questa “certezza”, a detta di tutti – è un altro alligatore nelle fogne di New York: una leggenda metropolitana che forse ha un suo fondo di verità. O forse no.
Resta il fatto che non puoi stare mai tranquillo. E anche se vai troppo veloce, mica va tanto bene lo stesso qui, eh. Non importa che, magari, tu hai trovato il tuo bel ritmo di lavoro, quello giusto per reggere otto ore, senza finire in debito d’ossigeno. Che otto ore, poi, è come quattro maratone. Alle Olimpiadi di ore ne bastano solo due, per una maratona. In otto si farebbero esattamente centosessantotto chilometri e settecentottanta metri. E, quindi, per reggerli tutti, senza scoppiare, dovresti prendere il tuo passo, senza spezzare il ritmo. Ti direbbe così il tuo allenatore, se tu fossi alle Olimpiadi.
Ma qui no. Qui le leggi della fisica e della biologia non esistono. Qui in Amazon il tuo ritmo si può cambiare, si può spezzare, si può frenare, si può rallentare, si può accelerare di continuo, indipendentemente da te. Qui dipende solo dai flussi degli ordini dei clienti. Da quello che dice l’algoritmo. E allora, anche se vai troppo veloce, arriva subito un manager per bloccarti.
E allora, per un bel po’, tu te ne stai fermo così, a girare i pollici. Ad aspettare che ti si riempia il wall. E allora – e solo allora – ecco che ti ridanno il via. E allora – e solo allora – lo devi svuotare tutto in un lampo, quel wall. E devi paccare e paccare e paccare veloce, velocissimo, come se non ci fosse un domani. Come se tu fossi Bolt. Anche se Bolt non corre mai come una scheggia per otto ore filate. Anche se Bolt mica fa la maratona, lui.
Lui fa i cento metri. Ma tu sei meglio di Bolt. Molto meglio. Tu sai essere più veloce di lui e per tutti i centosessantotto chilometri. Per tutte le otto ore. Spezzando di continuo il ritmo. Più veloce e più resistente. Perché tu sei un AMAZONIANO.
AMAZONIADE - 08 - L'ossessione del rate
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09. Il vendor
Ci sono giorni strani. Sono quei giorni in cui l’algoritmo sbaglia proprio a fare i conti. Succede una o due volte al mese, di media. Succede quando il lavoro è meno del previsto e però il computer pare che non se ne accorga e i turni del personale li organizza lo stesso a pieno regime.
Quando capita così, non è che poi ti dividano il carico fra tutti gli operai presenti, che sono tanti, più del dovuto, in modo che ciascuno fatichi un po’ di meno. No, no. Sia mai. I più sfigati li lasciano a lavorare lì, come al solito, col solito ritmo, come dannati. Gli altri, quelli di troppo, li mandano a bighellonare.
Che poi, alla fine, pure questi qua, restano sfigati lo stesso, esattamente come i primi. Anche perché poi non bighellonano per niente: non possono andarsene a casa, non possono sedersi a mensa, non possono prendersi un caffè, non possono uscire a fumare una sigaretta, non possono girare per lo stabilimento. Niente di niente. Devono stare fermi, inutili e impalati, ad aspettare ordini.
Così, dopo un po’, alcuni gruppi li mandano a fare dei corsi di aggiornamento. Che poi sarebbe lo stesso corso che tutti hanno fatto fin dall’inizio, prima di essere assunti qui. Sempre uguale. Sempre con lo stesso identico test. Sempre con le stesse domande. E con gli stessi fogli, dove ci sono gli stessi identici errori di battitura: “Ma non li potete correggere?” chiede qualcuno. “No, lo devono fare da Barcellona, che è lì la sede centrale europea. I test dei quiz li decidono loro e poi ce li mandano. Noi non possiamo cambiarli, nemmeno se sono sbagliati”.
Altri bighelloni, invece, li mandano a fare i lavori socialmente utili. Tipo spazzare per terra, o imbustare le mascherine chirurgiche anti Covid, oppure sostituire le scritte adesive sul muro – quelle con le indicazioni per raccapezzarti nell’hub – nei punti in cui le scritte si sono staccate.
Se anche questo non basta, alla fine ti mandano in qualche reparto speciale del magazzino. Uno di questi reparti lo chiamano il VENDOR. A me è capitato già tre o quattro volte di finire lì. E quando succede, mi pare di aver vinto al Superenalotto.
Il vendor è dove finiscono gli oggetti che si sono danneggiati. Magari si è solo ammaccata la scatola. Magari si è proprio sfasciato tutto e va buttato via. Ce n’è per ogni gusto. E chi sta lì deve decidere cosa fare: mandare la roba al macero? Rimettere in vendita l’oggetto a prezzo scontato? Insomma, alla fin fine, è un lavoro di concetto, di responsabilità. Roba forte in un magazzino Amazon. L’unico posto in cui chi sta lì conta un po’ di più dei computer.
È un po’ un luogo d’altri tempi, quando alle cose si dava una seconda vita, quando, se un oggetto di casa ti si rompeva, arrivava l’arrotino che ti aggiustava tutto. L’arrotino e l’ombrellaio.
E poi, soprattutto, qui ti puoi, anzi ti devi, confrontare con gli altri prima di decidere. Insomma, puoi addirittura socializzare. E puoi pensare. E puoi persino parlare. O meglio no, non potresti. Ma lo fai. E lo fanno tutti.
Ed è un posto così speciale che la tipa polacca, quella che di notte gestisce il reparto, oggi mi ha chiamato per nome. Non dico CACCIMAS. Dico proprio il mio vero nome. Lo aveva imparato. È una tizia bruttissima, la polacca. Esteticamente, intendo. Ma quando mi sono sentito chiamare Massimiliano le avrei buttato le braccia al collo, me la sarei scopata all’istante e le avrei chiesto di sposarmi, così, senza pensarci due volte, tanta era l’emozione.
E oggi abbiamo pure deciso insieme di rimettere in vendita a metà prezzo quei dodici asciugacapelli con la scatola ammaccata che ci sono arrivati. Abbiamo fatto un consulto con lei e gli altri colleghi. Ed è subito arrivata la security, a farci il rapporto e una nota scritta, perché per parlare ci eravamo assembrati e avevamo perso troppo tempo.
Sì, si può essere anche felici lì da Amazon. A patto solo di scontarla un istante dopo.
AMAZONIADE - 09 - Il vendor
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10. Guerra e pace
Col turno di notte finisce che arrivo sempre a casa all’alba. Mi si è scombussolato tutto il metabolismo, che adesso non riesco proprio più a dormire quando è buio, nemmeno quando ho le giornate di riposo. Così, per provare ad addormentarmi, quasi sempre mi metto sul web a guardare un po’ di video online.
Che poi, non lo so perché, ma mi è sempre piaciuta un sacco la storia. E allora, spesso, cerco video di storia su Youtube. Poi, adesso, ho scoperto i podcast di Alessandro Barbero. Sì, quel professore con gli occhiali. Quello che è diventato famoso con Piero Angela a Superquark. Quello che, chissà perché, dicono che fa un sacco di visualizzazioni. Che poi, adesso, lui c’ha pure tantissimi video su Youtube.
Forse perché è uno bravo a parlare, uno che ci sa fare e che è pure simpatico. Sta lì, a raccontarti di Garibaldi, con quell’arietta per bene e con quella sua vocina piemontese e rassicurante, che a me mi fa spesso da sonnifero. È un po’ come quando mio nonno, da piccolo, mi raccontava le favole prima di andare a dormire. Solo che a mio nonno capitava quasi sempre che si addormentava prima lui di me.
Con Barbero no, questo non succede. Metto su uno dei suoi podcast, di quelli lunghi, che durano un’oretta o due. Mi sento l’inizio della vita di Carlo Magno, o quella di Federico di Svevia e, prima ancora che lui arrivi a dire di quando quei tizi sono diventati dei grandi re, io mi sono già addormentato.
Oggi, invece, ho beccato una roba sulle guerre napoleoniche. Dura un’oretta o giù di lì. C’è Barbero che ti spiega come si reclutavano e si addestravano gli eserciti a quell’epoca. E non è che come argomento sia chissà che. Però va bene lo stesso. Anzi, forse va ancora meglio, come sonnifero. Così la sua voce mi fa compagnia, mi agevola il dormiveglia. La sentirò per un po’, in sottofondo e poi, sicuramente, finisce che mi aiuta a prendere sonno… O almeno spero…
“Ragionare il meno possibile – sento che dice Barbero, mentre parla di quei soldati dell’Ottocento - L’intero scopo degli eserciti era di costruire organismi che non ragionavano e che procedevano meccanicamente seguendo gli ordini. L’intero scopo era quello: non ragionare. Immaginate: voi avete reclutato duecento contadini. Per prima cosa li rendete tutti uguali, dandogli una divisa. Per seconda cosa gli mettete in mano un moschetto e gli insegnate a caricare e a sparare col moschetto. Già questo richiede un certo tempo. E non è che si possa spendere chissà quanto tempo e chissà quanti soldi per addestrare la truppa. Gli hai insegnato a caricare e a sparare col moschetto. Tanto basta. Poi questi duecento li metti tutti in fila e gli insegni a sparare tutti insieme. Non gli insegni a mirare al bersaglio. Sarebbe un’enorme perdita di tempo. No. Gli insegni solo a puntare quando l’ufficiale comanda ‘puntate’ e a sparare quando l’ufficiale comanda ‘fuoco’. E poi via, tutti insieme, ricaricare e di nuovo sparare. Poi li vuoi muovere? Gli insegni a marciare tutti insieme. Li abitui a riconoscere certi ordini semplicissimi, sempre quelli, standardizzati. Si marcia tutti allo stesso passo. Settantasette passi al minuto. Il segreto per mandare gli uomini alla morte è questo: mandarli in tanti, tutti insieme e tutti uguali.”
Oggi non ci riesco proprio a dormire. E la voce di Barbero continua a farmi compagnia… “Ragionare il meno possibile… Riconoscere certi ordini semplicissimi, sempre quelli, standardizzati… Tutti uguali, tutti insieme, tutti allo stesso passo… Settantasette pacchi all’ora...” Oh, ma che ha detto pacchi? Ah no, mi sa che ha detto passi. Però… A pensarci bene… Sì, farebbe, giusto giusto, proprio settantasette pacchi all’ora. Anzi no, forse pure il doppio. È il ritmo dei packer di Passo Corese. Quelli che imparano pochi ordini. Standardizzati. Che lì, però, noi c’abbiamo un altro generale. Non sarà Napoleone, ma è comunque uno famoso. Insomma, alla fin fine, mica è cambiata troppo la faccenda.
Che poi, per trasformare le brave persone in bravi, bravissimi soldati, in fondo in fondo, servono sempre le stesse cose: ordini semplicissimi… tutti uguali, tutti insieme, tutti allo stesso passo… Settantasette passi… Anzi, settantasette pacchi... Che, tanto, alla fine, è proprio creare tanti bravi soldati quello che importa davvero. L’unica cosa. Da sempre. È tutto lì il segreto della vita, il segreto del successo, della felicità… Il segreto per mandare gli uomini a morire…
AMAZONIADE - 10 - Guerra e pace
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11. L'Autogrill
Io sto a Roma nord. Molto nord. Tanto nord che dopo un po’ ti accorgi che non è più Roma. Anzi no, non te ne accorgi mica. Pare proprio Roma. Però non lo è più. E da Roma nord arrivi a Passo Corese che è un attimo. Se prendi l’autostrada è un euro e cinquanta.
E al ritorno mi fermo spesso in Autogrill. È l’unico modo per parlare con qualcuno. Perché anche gli altri si fermano lì. Per parlare e sentirsi normali. Non tutti gli altri. Qualcuno però sì. E così ho fatto amicizia con qualche collega. Che quando si fermano in Autogrill li riconosci dal green badge.
C’è pure una carinissima. Si chiama Sara. Dice che prima organizzava eventi. Una roba strana, tipo matrimoni in pompa magna per ricconi stranieri. Adesso sta a fare i pacchi e va che è una scheggia. Sarà che faceva palestra. Sarà che vuole restare lì a lavorare: “Cazzo, mi sono resa conto di che lavoro precario è il nostro. No, non dico Amazon, dico gli eventi. Che poi lavoravo con gli stranieri, però adesso chi viaggia più, no?”. Qui c’ha un contratto di tre mesi. Come me. Ma è già meno precario di prima, dice lei.
C’è pure Antonio, che insegnava teatro a Palermo. “Dalla Sicilia ci sei venuto?” gli chiedo perplesso. “Al sud quest’azienda non ha sedi. La sede più vicina è questa!” Risponde secco e non ha voglia di proseguire il discorso.
Roberta, invece, è di una simpatia contagiosa. Di quelle donne così brutte che finisci per vederle bellissime. Lavorava in un locale a Centocelle. È magra magra. Ma magra magra magra. Di un magro malato. Però lei è simpatica e non dice niente. Le offro un biscotto, mi risponde che sta a dieta. Domani le scade il contratto e non sa ancora se glielo rinnoveranno. E ride, perché è simpatica e preoccupatissima.
vruuuuuuuuuuu… perché lì la notte è tutto un vruuuuuuuuuuu… interminabile. Dico in Amazon. Che tanto poi non ci fai più caso. Ma se parli non ti si sente. Con le mascherine poi. E allora stai lì a fare il pesce nell’acquario, senza parlare, che tanto è inutile. Al ritmo di quel vruuuuuuuuuuu… Quello che scandisce il tempo sempre uguale, senza inizio e senza fine. Con uomini e donne sempre uguali, senza inizio e senza fine, che variano di tre mesi in tre mesi. Ciascuno col suo codice.
Ma qui in Autogrill no. Qui è diverso. Qui sembra tutto normale. E allora mi ricordo di quel mondo senza vruuuuuuuuuuu e senza mascherine, in cui si millantavano tante opportunità. E mi ricordo pure che so usare appropriatamente termini come “millantavano”. Per questo mi viene da ridere quando, alle sei del mattino, mi fermo all’Autogrill tornando verso casa. E ripenso a una canzone di Giorgio Gaber: “Da solo, lungo l’Autostrada, alle prime luci del mattino, a volte spengo anche la radio… Lo so del mondo e anche del resto, lo so che tutto va in rovina, ma di mattina, quando la gente dorme col suo normale malumore, mi può bastare un niente, forse un piccolo bagliore… E sto bene!”
Ci stanno Roberta e Antonio e pure Mary, all’Autogrill, che forse un giorno vi parlerò pure di lei, di Mary dico. Si sono fermati anche loro a prendere un caffè, giusto per sentirsi normali, in un vecchio mondo senza mascherine e con tante millantate opportunità.
E ci salutiamo e ridiamo insieme e scherziamo, su cose di lavoro e anche no. Senza pensare che pure l’Autogrill non è più un Autogrill. Adesso sta in un container. Perché all’Autogrill, quello vero, dovevano partire i lavori. Però è arrivata la crisi e hanno stoppato tutto. Intanto è passato un altro giorno. E saluto quando esco. Poi domani si vedrà. Perché, ne sono certo, alla fine, andrà tutto bene…
AMAZONIADE - 11 - L'Autogrill
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12. Una rottura di scatole
In ogni station ci sono mille tipi di scatole: ci sono quelle grandi, quelle medie, quelle piccole, quella piccolissime. Pronte per ciascuna esigenza. C’è la K10, dove ci sta comoda una famiglia di elefanti. C’è l’A1, che è tipo una busta da lettere, ma in carta riciclata. Per ogni ordine che arriva, hai il computer che t’indica quale scatola usare. Tac, in automatico. Comodo, no?
Certo, una volta su dieci, o giù di lì, il computer ti fornisce anche qualche fake news. Cioè ti indica una scatola troppo grande, oppure una troppo piccola, oppure una giusta giusta, talmente giusta che basta solo che la confezione di un oggetto sia un po’ più gonfia del dovuto e ti si sfonda tutto. E allora, puoi pure dire addio al rate e al ritmo che avevi preso, che devi ricominciare daccapo, buttare tutto e rimpacchettare di nuovo.
In teoria, quando succede questo, non è che puoi cambiare formato di scatola, per prenderne uno più adatto, decidendo di testa tua. Se il computer ti dice che serve una K10 per una spilla e un’A1 per un frigorifero, c’è poco da fare: devi fare entrare il frigo nella busta da lettere. Costi quel che costi. Se proprio non ci riesci, allora dovresti chiamare un lead, o un manager, segnalargli il problema e attendere le sue indicazioni. Mi hanno detto che la procedura è così. E io ci ho creduto.
Però, poi valli a trovare i lead o i manager, in questo magazzino grande come dodici campi di calcio. Devi lasciare la station, girare per i reparti, scovarli da qualche parte, fermarli, parlarci e, soprattutto, farti capire, nonostante il vruuuuuuuuuuu che ti copre le parole.
Poi, ritorni in postazione e, dopo un po’, ecco che arriva un altro manager, uno ignaro di tutto, ma che ha visto sul suo tablet che negli ultimi cinque minuti tu hai paccato solo un pacco. Certo, uno solo perché eri in giro a cercare aiuto. Ma lui non lo sa. Questo il tablet mica lo dice. E allora ecco che ti arriva la ramanzina. Lui ti fa una bella lavata di testa e poi ti sposta di postazione.
Ci sarebbe anche un altro sistema. Perché in ogni station c’è un pulsante di allarme, per chiamare aiuto. Anzi, ce ne sono due. C’è quello giallo che accende solo una lucina. C’è quello rosso che attiva anche il segnale sonoro. Ho provato, cominciando con quello giallo. Della lucina non se ne accorge nessuno e puoi aspettare anche due ore. Inutilmente.
Il segnale rosso, quello sonoro, funziona molto meglio. In quel caso il manager, prima o poi, arriva. Non subito, ma tempo un quarto d’ora è lì. E quando gli spieghi il problema, ti dice che il pulsante rosso va attivato solo in caso di pericolo immediato, non per cosette di poco conto, tipo la misura di una scatola. Che poi, se il pericolo fosse stato davvero immediato, in un quarto d’ora, avevi già fatto bello che in tempo a schiattare, ma va beh. Insomma, tutto finisce comunque come nell’altro caso: lui ti fa una bella lavata di testa e poi ti sposta di postazione.
E così, alla fine, io sono diventato bravissimo a capire la misura giusta per ogni pacco da paccare, fregandomene delle indicazioni del computer. Sono diventato bravissimo a non seguire più nessuna procedura. E a non credere più a nessuno, quando mi spiega come funzionano le cose qui. Perché nessuno sa davvero come funzionino le cose qui. E questa è l’unica cosa certa. L’unica procedura da seguire.
AMAZONIADE - 12 - Una rottura di scatole
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13. Lo sciopero
Domattina pare che c’è il primo sciopero dei lavoratori Amazon. Lo hanno strombazzato sui giornali e le TV. Anche TV importanti. Anche la RAI. Anche Mediaset. Tutti a parlare di noi. Che a guardare i servizi dei TG, sembra quasi che stiamo facendo la rivoluzione e che tutti ci vogliono bene. Tutti stanno dalla nostra parte, lì in TV. Ma proprio tutti, eh.
Parlano un sacco dei nostri problemi, sui TG. Ne parlano così tanto, che io l’ho saputo così di questo sciopero. Perché, se no, qui a Passo Corese mica lo avrei saputo. Qui non ne parla proprio nessuno. E poi è che qui siamo tutti col green badge, o quasi. Tutti coi contratti in scadenza. E allora, a chi gli va di mettersi in cattiva luce, che poi non ti rinnovano il contratto? Quindi, meglio non parlare di sciopero. Mai. Con nessuno. Che ognuno può essere una spia.
Io poi, che c’ho il turno di notte, stacco all’alba, prima che lo sciopero cominci. E domani ho pure il giorno di riposo. Quindi, anche volendo, lo sciopero non lo posso proprio fare. Ci penseranno quelli che hanno il turno dopo di me, quelli che incrocio la mattina e che attaccano il lavoro quando io esco. E chissà, forse, stamattina, non incrocerò quasi nessuno: staranno tutti a casa per via di questo sciopero.
Comunque, quello che dicono i TG è tutto vero, eh. Veri i turni massacranti. Vero l’algoritmo che decide cose insensate. Vera la precarietà che diventa sistema. Il metterci gli uni contro gli altri. L’assenza di garanzie. Anche le più elementari. Tutto, tutto vero. Tutta roba da “lotta dura senza paura”, come vogliono, giustamente, i sindacalisti che intervistano in TV. Però, fuori dalla TV, la paura c’è. Altro che se c’è. Anzi, forse nemmeno quella. C’è proprio che l’unico pensiero qui è: ma mi rinnovano almeno per un altro mese a me? Per tutto il resto, boh, ma anche sticazzi.
Amazon lo sa. Lo sa bene come vanno le cose qui. Amazon l’ha costruito proprio così questo mondo. E funziona. Funziona benissimo. E, se poi questo mondo non assomiglia a quello ideale che vorrebbero oggi i TG, quel mondo del lavoro e dei diritti, dei sindacati e delle garanzie, fa niente.
Oggi è così, ci sarà qualche titolo di giornale scandalizzato, qualcuno storcerà il naso e guarderà un po’ male. Ma domani l’opinione pubblica capirà. Amazon dà così tanto lavoro! E così tanti servizi! Rapidi ed economici. E poi basta usare carta riciclata per i pacchi, sistemi ecologici ad acqua per i nastri adesivi e rifarsi rapidi una verginità. Una verginità green. Proprio come il badge.
Intanto, sono finite le mie otto ore. Esco nel parcheggio, mentre una marea di persone entra nell’hub per il turno di mattina. Sono le stesse di sempre. Forse anche di più.
Sì, oggi c’è il PRIMO SCIOPERO DI AMAZON. E sui TG ci dicono che l’adesione dei lavoratori è alta. Qualcuno dice del settanta o settantacinque per cento. Certo, a starci davvero qui, pare proprio tutta un’altra storia.
AMAZONIADE - 13 - Lo sciopero
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14. Lo slow rate
Oh, ci pensavo oggi: è da parecchio che non vedo più Roberta. Quella magrissima e simpatica, quella che gli scadeva il contratto. E nemmeno Sara, che andava come una scheggia. E non ho più ho visto Antonio, neanche al bar dell’Autogrill. Mi sa che non hanno più rinnovato nessuno. Eppure, cacchio se erano veloci a paccare, quelli lì.
Pare che sono rimasto solo io, qui. Almeno di quelli che avevo imparato il nome. Io e un tizio cubano, uno di colore, uno che si fa chiamare Fidel. Ma mi sa che non si chiama davvero Fidel, perché c’ha il login che non comincia con la effe. Sarà un comunista, un ammiratore di Castro, boh.
Nemmeno al vendor mi ci hanno più mandato. Che lì al vendor mi piaceva. E si poteva pensare. E pure parlare un po’. Anche se poi ti mettevano la nota in condotta. Ora davvero di parlare, qui all’hub, non c’è proprio più modo. Con chi? E come?
Per fortuna che ieri mi ha chiamato Francy. Sì, quella del corso. Che oggi aveva anche lei il turno di notte. Anche se sta in un altro reparto. E allora ci siamo visti in pausa. E ci siamo messi a chiacchierare. Nella sua macchina, così nessuno ci rompeva le scatole se facevamo casino. E abbiamo parlato. E parlato. E parlato. E parlato ancora. Mica lo so di che. Era troppo bello sentire una voce, senza quel vruuuuuuuuuuu infinito di sottofondo, che quello che dicevamo non aveva proprio nessuna importanza.
Poi però la pausa è finita. Sono tornato in postazione. Mi sono rimesso a paccare. E ripensavo alla voce di Francy. Che è pure carina. E mi manca un sacco farmi delle belle chiacchierate. E farmi delle risate. E mi manca l’aria aperta. E una birra la sera. Che non ci andavo mai a farmi una birra, ma mi manca lo stesso. E poter chiedere a qualcuno qualcosa. O che qualcuno chieda qualcosa a me. Poi, oggi mi sento davvero stanco. Anche un po’ triste. Qui il lavoro è pesante. L’atmosfera è cupa. E fra poco mi riscade pure il contratto.
“Caro, potresti andare più veloce?!” m’interrompe, tra i pensieri, una manager sui venticinque, una col tablet e la pettorina flu. Pare decisamente spazientita. “Ma anche no” le rispondo io, con un tono sereno, come se la mia fosse la risposta più scontata del mondo, anzi un omaggio garbato, che le porgevo a istinto, per riflesso automatico.
Che una risposta del genere non sia nemmeno lontanamente contemplata dentro questo hub, lo so bene. Ma sono stanco. Pensoso. Deluso. Incapace di agire a freddo. Ora so già che per me si scatenerà l’inferno. Note su note in condotta e nessun rinnovo a scadenza di contratto. Così sarà.
O forse no. Perché poi, un po’ a sorpresa, la venticinquenne resta spiazzata. Gliel’ho detta troppo grossa. Troppo, troppo grossa. Ho sovvertito tutte le regole e le usanze del luogo. Resta inebetita, come gli americani a Pearl Harbour, di fronte ai kamikaze giapponesi. Non sa cosa fare. E nemmeno il tablet, nemmeno l’algoritmo le vengono in aiuto, dandole suggerimenti.
“Ok” mi fa. Con tono sottomesso. E poi va via, col passo un po’ insicuro. Sono stupito anch’io. E allora alzo la posta. Ho deciso che d’ora in poi giocherò all’attacco. Con le armi del paradosso. E per farmi rinnovare il contratto, anziché aumentarlo, abbasserò il ritmo del mio lavoro. Per tutti i giorni che ancora mi restano da lavorare lì. Che tanto, di sicuro, me ne resteranno pochi.
E così, mi passano le settimane. Tutte monotone. Tutte uguali. Tutte lente. Perché me ne frego del rate. E non succede proprio niente. Nessun richiamo disciplinare, né scritto, né verbale. Niente di niente. Che roba strana.
Anzi no. Una cosa importante, a dire il vero, alla fine succede: tre giorni prima della scadenza, mi chiama Gi Group per firmare il rinnovo. E allora firmo per restare ancora un po’. Per altri tre mesi, a quanto pare, potrò permettermi di dire ancora “Ma anche no” ad ogni prossima venticinquenne in pettorina flu, che dovesse, in futuro, chiedermi di fare qualcosa che non mi va.
I colleghi che andavano come schegge li hanno mandati via. Io sono ancora qui. Nelle fogne di new York, forse, non ci vive nessun alligatore.
AMAZONIADE - 14 - Lo slow rate
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15. La station tre
No, non sono tutte uguali. Certo, si assomigliano molto, ma proprio tutte uguali no. Parlo delle STATION, cioè le postazioni di lavoro per i packer. Che ce ne sono cinque per ogni wall. E, ogni volta, non sai mai quale ti capita. Proprio come i cioccolatini di Forrest Gump.
Poi, quando te ne assegnano una, non è detto che tu resti lì per tutto il turno. A volte sì. Altre volte ne puoi cambiare pure cinque o sei nella stessa giornata. Non sai mai bene il perché.
Perciò, non ti puoi organizzare, sistemarti le cose come ti viene più comodo per lavorare. No, no: lì è tutto impersonale, tutto standardizzato. Deciso una volta per tutte, da chissà chi. E se tu sei troppo alto, o troppo basso per prendere gli oggetti, gli attrezzi, le scatole, se ti viene scomodo per come sono messe le cose nella station, problema tuo.
Poi c’è la Station tre. Che è quella che sta nel mezzo di ogni wall. Ha gli scaffali un po’ più larghi. Una roba quasi impercettibile, per uno sguardo poco allenato. Ma è uno di quei dettagli che ti fa la differenza. Perché alla Station tre possono infilare oggetti più voluminosi. E voluminoso, spesso, significa anche più pesante. Di poco più pesante. Un poco da moltiplicare per centocinquanta pacchi l’ora, da moltiplicare ancora per le otto ore di turno. Così finisce che tanto poco, alla fine, proprio non è.
Non lo so perché, ma sono giorni che mi piazzano sempre lì. Mi cambiano di wall, questo sì. Ma la station che mi assegnano è sempre la tre. Magari è il loro modo di vendicarsi per certe mie risposte, per i miei “ma anche no”. Oppure per non farmi fare il rate, perché le cose pesanti ci metti di più a imballarle e quindi di pacchi, alla fine, ne fai di meno. O forse hanno l’ordine di piazzare lì gli anta, perché, stranamente, nelle Station tre, quasi sempre ci trovi i tipi un po’ più âgé.
Fatto sta che, da ieri, comincia a farmi male la spalla e adesso pure la schiena. Ho provato a fermarmi, a rilassarmi un attimo, per far passare il dolore. Sono arrivati subito a farmi il cazziatone e a dirmi di ricominciare. Allora, sai che c’è? Me ne vado in infermeria. Così il cazziatone me lo farà il medico di turno, semmai. Sempre meglio di un ventenne nerd con la pettorina flu e il tablet d’ordinanza.
Ho visto che sta in fondo al magazzino, l’infermeria. Nella parte dell’inbound, dove arrivano le merci. Sarà un chilometro da qui, ma la meta e il nobile obiettivo, valgono il lungo viaggio. Quando arrivo lì, però, la porta è chiusa e non so come entrare. Vedo un tizio che si avvicina e gli chiedo lumi. Ha l’aria da boss.
“Ma il tuo lead dov’è?” mi fa lui. “Non lo so dov’è. Sono venuto qui perché ho male alla spalla e alla schiena. Il lead non l’ho cercato proprio” rispondo io. “Eh, ma non puoi venire qui senza il tuo lead. Tu non sei nemmeno di inbound. È lui che ti ci deve portare in infermeria” aggiunge perentorio. A sentirla così mi sembra quasi di essere un bambino scemo, uno che dev’essere accompagnato dalla mamma, dal papà e da chi ne fa le veci.
Stiamo un po’ a dibattere su queste procedure, ma alla fine, per fortuna, il tizio si convince a fare uno strappo alla regola e ci riesce a farmi entrare in infermeria, parlando con qualcuno, tramite il suo walkie-talkie.
Dentro l’infermeria, c’è una dottoressa sui quaranta, da sola e con l’aria decisamente molto annoiata. È una che, a naso, pare ancora più felice di me di avere davanti qualcuno con cui finalmente poter parlare. Mi visita sommariamente, mi smolla rapida un antinfiammatorio e poi mi consiglia di restare lì, in infermeria, per le due ore che restano ancora fino a fine turno. Mi fa firmare dei fogli e bedgiare il green badge.
Avvertiamo il mio reparto della situazione, sbrighiamo tutte le pratiche del caso e poi cominciamo a parlare del più e del meno, nell’attesa dell’agognato cambio turno. Sono chiacchiere senza trasporto, quelle fra me e la dottoressa, ma parlare, si sa, ha comunque un suo grande valore, è già di suo un fatto eccezionale e un’efficacissima terapia, qui in Amazon. Fuori, intanto, comincia ad albeggiare. Quando arrivano le sei, ci salutiamo educatamente. Un altro giorno è passato. Un altro arriverà.
AMAZONIADE - 15 - La Station tre
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16. Il guru
Oggi, in pausa, vado a prendere un caffè al distributore automatico. Dietro di me, in fila, c’è un tipo che mi fissa. Sento il suo sguardo, una roba così insistente che mi mette quasi in imbarazzo. Dopo un po’, il tipo decide di rompere gli indugi: “Oh, ma te lo devo proprio dire eh – mi fa – sai, è da parecchi giorni che ti guardo, come ti muovi, come ti comporti qui”. “Ah sì? E perché?” gli faccio io, stupito. “Sì, perché sei diverso dagli altri. Tu non ti sbatti come un dannato, come un drogato, come fanno tutti qui. Tu vai tranquillo, col tuo passo, come se non te ne fregasse niente di niente. Sembri un guru!”
Un guru! Ci fermiamo a scherzare un po’ su questa cosa, nei quattro minuti che ci restano fino a fine pausa, sotto gli sguardi occhiuti e un po’ infastiditi della security, che però non interviene. Mi dice di chiamarsi Marco e che prima faceva il grafico in uno studio di pubblicità. Mi dice pure che vorrebbe essere come me, vorrebbe fare come me, fregarsene di tutto, ma alla fine, preso dall’ansia del rate, non ci riesce.
Quando torno in postazione, dopo avere ribedgiato il badge per segnalare la mia presenza, ho una sensazione strana: un guru! Non mi era mai successo di sentirmi il punto di riferimento di qualcuno, un ammirato modello di comportamento e di morale. Inconsapevole di esserlo, oltre tutto.
Mentre pacco i miei pacchi mi accorgo di sentirmi diverso, quasi come se un’aureola mi avesse cinto la testa. M’immagino vestito di bianco, con un sari e un lungo bastone ricurvo, un Gandhi de’ noantri, leader di una silenziosa rivolta non violenta degli ultimi della terra. Luce e punto di riferimento delle masse. Certo, però, non è che ha fatto una gran bella fine quel Gandhi: poveraccio lui è morto ammazzato.
Forse, allora, se proprio devo essere guru, meglio essere un guru da macchietta, uno alla Riccardo Pazzaglia, l’attore amico di Renzo Arbore. Mi ricordo di un suo vecchio sketch da avanspettacolo, che poi anche altri hanno copiato: “Me ne vado a fare il guru” s’intitolava. E mi ricordo il coretto che lo spingeva a fare quella difficile scelta di vita: “Ma vattene a fare il guru, ma che me n’importa a me? Se tu vai a fare il guru, me fai nu regalo a me. Io chello pensavo sempre: sta grazia putess’ avé! Ma famm’ campà a me pure, va a fare il guru luntan’ a me!”
E poi io non sono il punto di riferimento di nessuno. Non ho nessuna rivolta non violenta da guidare. È solo che continua a farmi male la spalla, anche se meno dell’altro giorno e perciò ho abbassato il ritmo. È solo che mi pare che questa storia del rate per avere il blue badge, cioè il contratto a tempo indeterminato, è un’enorme sciocchezza. È solo che non vedo più né Sara, né Roberta al lavoro in postazione.
Certo che è strano che a loro le hanno mandate via e io, invece, sono ancora qui. Licenziano le stakanoviste rapide e bravissime e tengono in attività uno come me, uno che, a quanto pare, è il leader segreto dei briganti, il mito dei fancazzisti, uno che viaggia a ritmi lentissimi e con una spalla malandata.
E se non fosse un caso? E se volessero proprio così? Perché Sara e Roberta ci tenevano tanto e avrebbero fatto di tutto per avere il blue badge. Meglio mandarle via, prima di correre questo rischio. Uno come me, invece no. Si sa che, dopo un po’, uno come me scoppia di suo. E allora non romperà certo le scatole per avere il blue badge, uno come me, quando riceverà il benservito. E così avranno di nuovo i posti liberi per una nuova infornata di green badge, di paria ansiosi di fare il rate, gente da spremere e da licenziare qualche mese dopo.
Certo, sarebbe diabolico, se fosse così. E non lo so se è vero, non lo so se sto solo delirando per non sentire il dolore alla spalla. Però una cosa è certa: qui a Passo Corese di nuovi blue badge non credo proprio che ne verrà distribuito nessuno, che tu sia bravo o no. Di benserviti, invece, a decine di migliaia. Basta solo aspettare.
AMAZONIADE - 16 - Il guru
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Pare un mondo in cui i criteri della logica, dell’economia, del buon senso, sono solo ferri vecchi privi di valore. E finisce che anche tu, allora, cominci a sentirti un ferro vecchio privo di valore, buono solo per inscatolare libri in tedesco, scritti da tedeschi, per lettori tedeschi, libri che partono dalla Germania, per tornare in Germania, libri che non leggerai, né capirai mai, perché tu il tedesco non lo sai.
Sai solo di essere un piccolo carro armatino di un enorme Risiko, di cui non conosci gli obiettivi. Un carro armatino che verrà sacrificato al prossimo lancio di dadi, magari per conquistare la Jacuzia, quella regione ignota, esotica, misteriosa, che nessuno ha mai saputo, né mai saprà dov’è.
AMAZONIADE - 17 - Amazon über alles
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18. Il picco
Di tanto in tanto, qui in Amazon, c’è una strana fibrillazione. Soprattutto da parte dei lead e dei manager del magazzino. Succede quando sta per arrivare quello che qui viene chiamato il “picco”. Accade durante il Black Friday, oppure nei giorni di Natale. Ma non solo. Merito dei lockdown e delle nuove abitudini degli italiani – sempre meglio disposti verso gli acquisti online - i picchi di Amazon sembrano moltiplicarsi, in modo esponenziale.
Quando si avvicina il picco, è tutto un succedersi di messaggi motivazionali, trasmessi dagli altoparlanti interni: “Ragazzi, siete grandi, ma so che sapete esserlo anche di più! Tutti pronti per il picco?” Robe così, fintamente colloquiali e amichevoli, autenticamente retoriche. Messaggi sonori a cui ci si abitua in fretta, senza farci più caso. Più o meno come avviene per l’incessante richiesta di mantenere il distanziamento anti Covid, che quegli stessi altoparlanti trasmettono h24, per 365 giorni l’anno, a cadenza fissa di cinque, dieci minuti.
Il picco è, ovviamente, un aumento degli ordini, quello che si ha in alcuni periodi dell’anno. Certamente per i lead e i manager è prevista anche qualche forma di premio di produzione, in quei giorni. Ma per i semplici operai, nei periodi di picco, di fatto non cambia proprio nulla. Viene sì aumentato il numero di presenze attive in ogni turno lavorativo. Ma il carico del lavoro individuale resta praticamente invariato.
L’unica differenza sostanziale, è che, prima di ogni picco, Amazon ti regala una bella t-shirt stampata ad hoc. L’ho ricevuta anch’io, anche se non è della mia misura, perché quando sono passato a ritirarla erano rimaste solo le small.
Perché dovrei essere felice di ricevere una t-shirt così, non mi è proprio chiarissimo. Né mi è chiaro perché dovrei preoccuparmi di un picco che non mi cambia né il carico, né le modalità del mio lavoro. Ma, a quanto pare, sono un po’ strano io, perché vedo che tutti indossano orgogliosi quella maglietta, quasi ostentandola, gasati e adrenalinici, come se si stessero preparando a giocare una finale di Champions League. Una finale in cui non c’è nessuna coppa in palio, però. Nessun premio. Nessuna medaglia. Eppure, agli occhi del personale Amazon, questo sembra un dettaglio.
È talmente forte la voglia di assecondare i capi, di rispondere a quelle che si ritengono essere le aspettative dell’azienda, che certe considerazioni non sfiorano nemmeno la mente. Ed è talmente forte la paura di perdere il lavoro, di non ottenere l’agognato blue badge, che anche la logica più elementare finisce nella tazza del cesso, tirando pure lo sciacquone.
Nessuno vuole accorgersi che non c’è nessun blue badge ad attenderci, che anche i colleghi più bravi, quelli che facevano bei numeri e che fino a ieri erano qui, a scadenza di contratto spariscono e non te li ritrovi più a fianco.
“Beh, ma avranno cambiato turno” qualcuno si azzarda a dire, per dare una parvenza accettabile a una realtà avvilente. E, con questa illusione, poi corre a lavorare come un forsennato, per ottenere il rate, ostentando magliette del picco, t-shirt dai colori sgargianti, che finiranno presto per scolorirsi in lavatrice, insieme alle illusioni.
Che poi le mie, di illusioni, mi vanno ormai sempre più strette. Sono di una misura small, proprio come la mia maglietta. Mancano solo poche settimane alla scadenza dell’ultimo rinnovo. Per legge, stavolta, non potranno più farmelo firmare ancora per uno, oppure per due, o magari per tre mesi. È passato quasi un anno dal mio day one, siamo arrivati al redde rationem: o blue badge, o arrivederci e grazie.
Intanto, gli slogan motivazionali vengono mandati a palla dagli altoparlanti dell’hub. Per fortuna, il vruuuuuuuuuuu è così forte, che io nemmeno riesco a sentirli.
AMAZONIADE - 18 - Il picco
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19. I day one non finiscono mai
È da un po’ di giorni che in magazzino pare esserci meno lavoro. Sempre più spesso, mi capita di vedere i conveyor che girano a vuoto, viaggiando mestamente privi di oggetti da paccare. Così si rimane, un po’ stupiti, a girare i pollici. Roba di qualche minuto, per carità. Poi tutto torna a funzionare a pieno carico. Però anche i minuti, dati i ritmi che ci sono qui, finisce che ti sembrano secoli.
“Eh, ovvio: c’è la crisi! È che la gente non ha più i soldi per ordinare niente, nemmeno su Amazon…” prova ad azzardare qualcuno, lanciandosi in un inedito ruolo da esperto analista economico. Perciò, alla fine, nessuno si sorprende troppo se, via via che scadono i contratti, nemmeno uno di questi viene rinnovato.
Ormai, intorno a me, qui nell’hub, scopro solo facce nuove. Tutta gente mai vista prima: nei reparti, nel parcheggio, anche a mensa. Il che, però, se vuol dire che tutti i vecchi colleghi non ci sono più, vuole dire anche che di nuova gente ne continua ad arrivare. Perché poi, ci sarà pure la crisi, ci sarà pure meno lavoro, però qui a Passo Corese il ricambio di personale non manca mai. Anche oggi, per esempio, nel corridoio vicino ai bagni, ho incrociato un folto gruppo di persone, tutte prese dal loro day one, con l’instructor che spiegava ad alta voce le regole base del nostro magazzino e le caratteristiche dei vari reparti.
Strana situazione: c’è la crisi, non si rinnovano i contratti, il lavoro è poco, però ecco che, incessantemente, arrivano forze fresche. Ed è proprio bizzarro questo modo di gestire l’azienda: assumere nuovo personale proprio quando il lavoro scarseggia. Direi anche un po’ autolesionista, se davvero, come sento dire in giro, gli ordini dei clienti fossero in fase calante. O, forse, questi ordini non stanno calando affatto? Di sicuro, all’autolesionismo di Amazon c’è da crederci davvero molto poco.
Comunque stiano davvero le cose, c’è da dire che, intanto, mi sta prendendo un bel po’ di magone. Guardo gli scaffali metallici, i conveyor; osservo i soffitti altissimi, i transpallet, gli ascensori, i robottini, i computer, i nerd ventenni con le pettorine flu; sbircio i metal detector all’ingresso, le scatole da imballare e quelle già imballate. Tutto mi suscita un misto di schifo e di nostalgia, di repulsione e di malinconia.
Fra pochi giorni, quasi di sicuro, smetterò di frequentare l’hub. Certo, niente è ancora detto e magari mi faranno un nuovo contratto, stavolta a tempo indeterminato. Ma c’è da sperarci poco. Anzi, non c’è da sperarci affatto. Dentro, intanto, mi cresce una strana schizofrenia: da una parte c’è come un senso di liberazione, dall’altra ho quasi una sindrome di Stoccolma, quella che mi porta ad amare e a rimpiangere questo magazzino immenso, anche se l’ho vissuto, sempre, come un’asfissiante prigione claustrofobica, orrenda sebbene retribuita.
Forse è normale così. Forse succede a tutti. Sta di fatto che quasi vorrei mescolarmi ai tipi del day one, quelli che stavano vicino ai bagni insieme al loro instructor, per ricominciare tutto daccapo, per riscoprire da zero i meccanismi di questo luogo, per stupirmi ancora delle tante incongruenze, dell’astrusità degli algoritmi, dell’ottusità militaresca dei lead, per spaccarmi le spalle e la schiena nella Station tre, per segnalare in ogni istante ogni mio impercettibile movimento, bedgiando ovunque il mio green badge.
Però, quando passo nel corridoio vicino ai bagni, i tipi del day one non ci sono più. Chissà dove sono finiti. Magari in qualche wall per imparare a paccare. O forse in una qualche stanza, a fare i soliti test pieni di refusi, quelli scritti a Barcellona.
Nel frattempo, si sono fatte le sei. Per oggi è andata. Domani è un altro giorno: l’ultimo, prima di sapere come finirà.
AMAZONIADE - 19 - I day one non finiscono mai
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20. Evergreen badge (L'epilogo)
“Siamo rimasti molto contenti del tuo lavoro”. Con Amazon è finita così, più o meno come previsto, con una frase di circostanza.
Oggi torno per l’ultima volta a Passo Corese. Ci vado solo per riconsegnare il mio green badge. Che poi non lo so mica il perché io debba riconsegnarlo. È già stato disattivato e, visto che c’è sopra la mia foto e il mio login, non possono certo riciclarlo a qualcun altro. Forse era il caso di lasciarmelo come souvenir. Ma tant’è.
Ne approfitterò per dare un ultimo sguardo all’hub, per la prima volta con gli occhi dell’ex. Poi tornerò, finalmente, nel mondo dei vivi, dell’aria, della luce. Tornerò a dormire col buio e a stare sveglio col sole. Tornerò nel mondo.
Un mondo che è un po’ cambiato, da quando per la prima volta sono entrato lì. Non c’è più il lockdown. E non c’è il coprifuoco, quello che, una volta in Amazon, mi fece optare per il turno di notte. E se pure non avrò più il mio green badge, c’è pur sempre qualcosa che gli somiglia, qualcosa da mostrare a tutti e da bedgiare in ogni istante. Una roba che, persino nel nome, pare proprio quasi identica. Mi farà sentire meno nostalgia.
Anche di parlare, qui fuori, la gente pare che abbia sempre meno voglia. E poi è pieno di nerd, tutti appiccicati a un tablet, o a un telefonino, anche se non hanno la pettorina flu.
Certo mi mancherà il vruuuuuuuuuuu dei conveyor, ma non si può mica avere tutto. Basta accontentarsi.
Non potrò più entrare nell’hub per paccare a manetta fino a spaccarmi la schiena. Ma Amazon, per non farmi immalinconire, ogni giorno che passa, sta venendo sempre più spesso a trovarmi anche qui fuori.
E comunque, presto, ne sono certo, verrà a trovare anche tutti voi. Proprio tutti. Nessuno escluso.
E guardatevi questo ultimo video...
AMAZONIADE - 20 - Evergreen badge (L'epilogo)
Gli autori
Massimiliano Cacciotti
(Roma, 1965) Giornalista pubblicista, genio spesso incompreso e artista poliedrico (in attesa di consacrazione postuma), Massimiliano Cacciotti ha diretto periodici e teatri, associazioni e agenzie pubblicitarie. In estrema sintesi: un fallito di successo.
Emanuele Giacopetti
(Genova, 1982) operaio illustratore e fumettista, ha pubblicato per Bebert Edizioni Il Regno Animale (2017). Ha collaborato col sito di giornalismo grafico "Graphic News" e partecipato al reportage collettivo Do you remember balkan route? (2015). Dal 2020 cura le illustrazioni di "Memoriae - Territori nazifascisti 1943-45" sito e serie di libri per la memoria anti-fascista nelle scuole. Per SMK Videofactory nel 2020 realizza i disegni per le animazioni del documentario The Milky Way. Nessuno si salva da solo.
PuntoCritico
Progetto editoriale lanciato nel 2018 da un gruppo di attivisti politici e sindacali che si ostinano a pensare che per creare una società migliore bisogna fare la rivoluzione. Dal 2018 pubblica una newsletter bisettimanale di attualità, politica, economia e cultura. Nel 2021 pubblica il primo volume come casa editrice, Il significato della Seconda guerra mondiale, del marxista belga Ernest Mandel. Nello stesso anno lancia il progetto di inchiesta aperto "Amazon, la società del futuro?" e produce il podcast "Amazoniani! Lavoro, precarietà e lotte dei lavoratori Amazon" (Spreaker) e la versione teatrale "Amazoniani! live". Nel marzo 2022, un anno dopo il primo sciopero della filiera di Amazon, pubblica "MappiAmazon. Logistica e strategia. La campagna d'Italia di Amazon in una mappa". Per accedere a questi lavori: https://www.puntocritico.info/amazon/
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